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Il Teatro Diana nel Tempo

di Domenico Rea

Abbiamo appena finito di ascoltare la voce di Luigi De Filippo, di questo discendente di una delle più grandi stirpi di attori e inventori del teatro italiano — e io starei per dire dell’unica originale e più grande di tutte – e di questo eccezionale attore e l’impressione é stata di una continuità o come oggi si dice di un continuo ininterrotto e senza grossi vuoti da un remotissimo passato al presente: dal teatro comico—buffo greco e latino fino alla nascita di Pulcinella, nel Seicento, attraverso Antonio Caracciolo, Braca, Trinchera, Davino, il Cerlone, Cammarano, Altavilla, Petito, Edoardo Scarpetta, Di Giacomo, Petriccione, Galdieri, Costagliola e Chiurazzi, Murolo e Riccora, Viviani e De Filippo, fino a noi, a noi che viviamo questo momento in una delle cattedrali del teatro napoletano e universale, il Teatro Diana. Certo, molti di voi i più giovani non sanno che in quest’ambiente e su queste tavole, é andato in su e in giù l’andirivieni del teatro italiano, e la sua strepitosa storia. Quanti di voi sanno che in questo teatro conveniva la più sofisticata aristocrazia napoletana e meridionale con i tiebary e landeaux dai lampioni accesi che attendevano duchi e duchesse, conti e contesse, baroni e baronesse, nobiluomini e gentildonne, la nascente borghesia, il popolo e la plebe?

Il 16 marzo del 1933, mezzo secolo fa, per vedere recitare Lucy D’Albert, accorreva dal palazzo reale il giovanissimo principe di Savoia, l’erede al trono di Vittorio Emanuele III. Allora il Vomero era un giardino, un paese di villeggiatura. I napoletani ci venivano a respirare 1’aria salubre o a consumarvi almeno una merenda. E non era facile. C’era una sola linea di tram. La gente preferiva arrivarci a piedi o in carrozzella. Dopo lo spettacolo al Diana se ne scendeva a Napoli a piedi, sfruttando accorciatoie e scalinatelle, che esistono ancora, ma che pochi conoscono.

Il Diana – in quegli anni, fra il trenta e il quaranta – fu uno dei pochi punti di convergenza del nuovo sapere dello spettacolo e del costume del mondo. Il Diana — e i1 suo fondatore Giovanni de Gaudio – fu il primo a combinare in Italia immagine e parola — ossia cinema e teatro. Agli Armando Gill – chi può oggi immaginare la rinomanza e la risonanza di questo nome? – alle Anna Fougez s‘intercalava il geniale topolino di Disney, alle Isa Bluette alle Lucy D‘A1bert, le comiche di un Chaplin e di un Buster Keaton?

Erano gli anni in cui per una stretta di mano con un attrice ci si giocava un matrimonio e, peggio una fortuna. Erano gli anni in cui se qualcuno riusciva a stringere la mano di un Ermete Zacconi, che su queste tavole veniva a recitare il suo cavallo di battaglia, il Cardinale Lanbertini, di una Imma ed Emma Grammatica, di una Maria Melato, di un Besozzi, di una Armando Falconi o di una Paola Borboni, non ci si lavava la mano fino a quando non arrivava una nuova compagnia.

Il fanatismo per gli attori é sempre esistito. Ma non esiste più la formazione e la creazione del teatro. Oggi tutto appare spaesato. Fu Eduardo De Filippo a pronunciare l’infelicissima frase: “Fuitevenne a‘ Napule”. Ma allora egli ci stava con tutti i suoi fratelli, Titina e Peppino e ci cresceva. Mentre il Viviani recitava i suoi capolavori: il “Circe Equestre Squeglia”, “Pescatori”, e “Festa di Piedigrotta”, Raffaele Viviani – un attore cosi straordinario che in segreto venne a vederlo perfino Brecht —. Eduardo provava “Uomo e Galantuomo”, “Ditegli sempre di si”, “Natale in casa Cupiello”. Allora Napoli, e in questo caso il Diana, era il trampolino di lancio del secolo, 1‘aereoporto per decollare nel Nerd Italia e nel mondo. Totò, il principe di Bisanzio, comincia a fare il burattino nei teatri di Napoli, compreso il Diana. Gli attori che in seguito sono diventati dei miti nel teatro in Italia e dei personaggi mondani qua, nel Diana, dove ora ci troviamo; venivano soltanto a piatire una scrittura e a chiedere un po’ di successo da uno dei pubblici logorati dall’abitudine secolare, più cinici e freddi d‘Italia.

Ma, applauditi a Napoli, potevano andare tranquillamente fuori: sarebbero stati – come furono — subissati di applausi e per conseguenza, di milioni e miliardi.

A noi interessa sapere che il Diana fu una sorta di actors studios una scuola, un severissimo campo di prova per la recitazione. Se si cadeva al Diana si sarebbe certamente caduti dovunque. Ad esaminare la scuola del teatro, a far da commissione giudicatrice, erano i napoletani, che sanno per istinto che cosa é il teatro. Il teatro deve porgere, deve divertire deve distrarre nella significazione leopardiana, deve cioé allontanare dalle ossessioni esistenziali quotidiane, deve, per un paio d’ore, allontanare l’uomo dalla sua intimità, deve procrastinare i suoi problemi;

E i discendenti del fondatore del Diana Mariolina e Lucio Mirra; a dispetto del consumo allo stato brado, hanno capito la lezione e la continuano. Vera gente di teatro sanno perfettamente che, per combattere la televisione nel campo dello spettacolo, ci vuole qualcosa di perfettamente diverso dalla televisione. La televisione é un po’ globalmente e sommariamente tutte le cose messe insieme — maccheroni, pesce, carne, sale e zucchero, peperoncino e marmellata, – e il teatro, il vero teatro é soltanto teatro. Perciò chiamano alla ribalta i Luigi e Luca De Filippo, esperimentatori di un testamento terribile, le Annamaria Ackermann, gli “eroici” fratelli Giuffré, Pupella Maggio, Massimo Ranieri: i figli d’arte, tutti coloro che sanno per istinto che il teatro non é ipotesi del vivere, ma la vita stessa sottoposta all’unica vera e possibile operazione d’alchimia: gioia e tristezza spinte al massimo della resistenza, fra lagrime e riso, calcolo e speranza.

Questa mia breve comunicazione é soltanto un enunciato della storia del teatro Diana, e in parte, della nascita e della formazione del Vomero come città. Chi vuol saperne di più legga le divertentissime ed erudite pagine del libro: “Un teatro chiamato Diana” di Renato Ribaud; un giovane autore di cose nostre su cui vale la pena spendere qualche parola. Renato Ribaud, morto il grande Gino Doria, i cui testi ogni napoletano dovrebbe avere nella biblioteca di casa insieme con Massimiliano Vairo, che lavora, ovviamente, su altri versanti e uno degli ultimi storici, perdonate il bisticcio, della storia patria, ossia della storia degli usi e dei costumi, del passato recente e remoto di Napoli. Il suo modo di ricordare é, per cosi dire, domestico: alla portata di tutti, quello di un uomo tranquillo, non privo di nervi e di incazzature, che passe dopo passo, passeggiando, ti accompagna e ti spiega che cosa significa quella lanterna, e che cosa quello albero, o quell’insegna, che cosa quel resto di una radice che una volta era un grande albero. Faccio un esempio per tutti. Una volta i Vomeresi erano eccellenti ortolani e quando scendevano a Napoli fra i napoletani, che si sono considerati, e a regione, fra gli uomini più civilizzati d’Europa, venivano apostrofati come: “Per ‘e vruoccole” e non perché i vomeresi coltivassero soltanto broccoli. I vomeresi furono fortunati. Ebbero in dono un‘aristocrazia e padroni lungimiranti. Meno cattivi sapevano di dominare Napoli, di respirare aria di mare e di collina, di mangiare meglio, di vivere più lontano dai cinici governi dei viceré. Renato Ribaud, storico aneddotico raffinatissimo, nel suo divertente libro, insegna parecchie cose, anche a chi credeva di sapere tutto.

Leggetelo, Vi divertirete.

Domenico Rea